Daimon. Revista Internacional de Filosofía, nº 95 (2025), pp. 99-113
ISSN: 1130-0507 (papel) y 1989-4651 (electrónico) http://dx.doi.org/10.6018/daimon.534411
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Sulla concezione bardiliana dell’arbitrio.
Una preparazione al realismo logico
Sobre la concepción bardiliana del arbitrio.
Una preparación para el realismo lógico
FEDERICO FERRAGUTO*
Recibido: 28/07/2022. Aceptado: 25/11/2022.
* Professore e coordinatore del Programa de Pós-graduação em Filosofia (PPGF) della Pontifícia Universidade Católica do Paraná, Curitiba, Brasile, borsista del Cnpq (PQ 2). Tra le sue pubblicazioni più recenti sul tema dell’articolo: O realismo racional de Karl Leonhard Reinhold, Educs, Caxias do Sul, 2022; “O verdadeiro para além do fundamento”, Cadernos de filosofia alemã, vol. 25, pp. 41-58; Realismo racional como heurística da Filosofia, Kriterion, 2022 (in corso di pubblicazione). L’articolo qui pubblicato si inserisce nel progetto finanziato dal Cnpq (Bolsa Produtividade em Pesquisa, 2022-2025, processo: 308011/2021-0). federico.ferraguto@pucpr.br
Abstract: L’articolo offre un contributo allo studio dell’assimilazione di alcune questioni fondamentali della filosofia pratica di Kant nella discussione filosofica dell’ultimo decennio del ’700 e dell’impatto di questa assimilazione sulla costruzione del realismo logico bardiliano, sedimentato nei Beyträge reinholdiani del 1801-1803. Partendo da una visione sintetica della critica condotta alla filosofia pratica di matrice kantiana dal punto di vista del realismo bardiliano e reinholdiano (§2), l’articolo ne ricostruisce la genesi attraverso una lettura dell’interpretazione data da Bardili del rapporto tra volere, legge e libertà nello scritto del 1796 Über den Ursprung des Begriffes der Freiheit des Willens. In particolare, l’articolo si concentra sulla relazione tra volontà e arbitrio (§3), sul problema della causa delle azioni libere (§4) e, sul rapporto tra volontà e dovere tematizzati da Bardili in questo scritto (§ 5).
Parole-chiave: Bardili, Kant, libertà, arbitrio, realismo.
Resumen: El artículo ofrece una contribución al estudio de la asimilación de algunas cuestiones fundamentales de la filosofía práctica de Kant en la discusión filosófica de la última década del siglo XVIII y el impacto de esta asimilación en la construcción del realismo lógico bardiliano, tal como se sedimentó en los Beyträge reinholdianos de 1801-1803. Partiendo de una visión sintética de la crítica de la filosofía práctica kantiana desde el punto de vista del realismo bardiliano y reinholdiano (§2), el artículo reconstruye su génesis a través de una lectura de la interpretación de Bardili de la relación entre voluntad, derecho y libertad en su artículo de 1796 Über den Ursprung des Begriffes der Freiheit des Willens. En particular, el artículo se centra en la relación entre voluntad y voluntariedad (§3), en el problema de la causa de las acciones libres (§4) y, en la relación entre voluntad y deber tematizada por Bardili en este escrito (§5).
Palabras-chave: Bardili, Kant, libertad, arbitrio, realismo.
1. Oltre la sintesi kantiana
Uno dei temi portanti della ricezione della filosofia kantiana concerne la possibilità di pensare i risultati del criticismo a prescindere dalla funzione-chiave attribuita alla soggettività1. Ciò sembra possibile nella misura in cui le strutture pensate attraverso il criticismo individuano relazioni fondamentali per l’accesso del soggetto al mondo, le quali, a loro volta, possono anche non essere intese come necessariamente riconducibili alle sue determinazioni psicologiche2. Tale riduzione, infatti, sarebbe determinata dallo scambio tra elementi che rientrano nella costituzione soggetto inteso come individuo psico-fisico e le fondamentali funzioni trascendentali che determinano la sua relazione con il mondo, di cui il soggetto è parte, ma non origine. L’ultimo decennio del XIX secolo è ricchissimo di riflessioni in questo senso, che spostano l’asse del criticismo in direzioni diverse e contraddittorie, tanto in un senso psicologistico (come nel caso di Fries o di Schmid), quanto in direzione di un olismo speculativo (nel caso di autori come Fichte e Schelling), quanto nel senso di un realismo non empirico, o razionale, i cui esponenti principali sono Bardili e Reinhold3.
La stagione del realismo razionale è breve, ma le sue conseguenze hanno effetti di lungo periodo. Rosenkranz, così come Zahn o Hartmann, vi hanno addirittura scorto l’inizio della dissoluzione progressiva delle tendenze del kantismo incarnata in maniera molto chiara, esplicita e filosoficamente significativa dalla speculazione hegeliana o dalla filosofia dell’identità di Schelling4.
La ricerca su questi argomenti si è però concentrata quasi esclusivamente sugli aspetti legati alla filosofia teoretica, soprattutto a quelli relativi al rapporto tra soggetto e assoluto o tra essere e pensiero5. Poco invece è stato ancora fatto in merito al modo in cui l’assimilazione di alcune questioni fondamentali della filosofia pratica di Kant nell’ultimo decennio del ’700 abbia inciso su questa svolta, al di là, e prima, delle esigenze anti-speculative manifestate da Jacobi nella Lettera a Fichte.
In questo articolo vorrei dare un contributo in questo senso. Partendo da una visione sintetica della critica condotta alla filosofia pratica di matrice kantiana dal punto di vista del realismo bardiliano e reinholdiano (§٢), ne ricostruirò la genesi attraverso una lettura dell’interpretazione data da Bardili del rapporto tra volere, legge e libertà nello scritto del 1796 Sull’origine del concetto di libertà del volere (Über den Ursprung des Begriffes der Freiheit des Willens). In particolare, mi concentrerò sulla relazione tra volontà e arbitrio (§3), sul problema della causa delle azioni libere (§٤) e, infine, sul rapporto tra volontà e dovere tematizzati da Bardili in questo scritto (§ ٥).
2. Soggetto, libertà, arbitrio.
Come è noto, la figura di Christoph Gottfried Bardili è legata sostanzialmente al Compendio di logica prima (Grundriss der ersten Logik), apparso già nel settembre del 17996. Tale opera divenne famosa soprattutto grazie a Reinhold, che, recependola con entusiasmo ed elaborando la sua ricezione nel corso di un epistolario con lo stesso Bardili, pubblicato nel 1804, dà vita a una rivista, i Contributi per una agile panoramica della condizione della filosofia agli inizi del XIX secolo (Beyträge zur leichteren Übersicht des Zustandes der Philosophie beym Anfänge des XIX Jahrhunderts), pubblicata tra il 1801 e il 1803. Gli scritti apparsi in questa rivista, in cui intervengono, oltre a Reinhold e allo stesso Bardili, anche autori come Jacobi e Koeppen, sviluppano una serrata polemica nei confronti delle filosofie di Kant, Fichte e Schelling7.
Di fatto, nel lavoro collettivo dei Contributi Reinhold intende il trascendentalismo come una filosofia basata sulla spontaneità dell’io che non permetterebbe di cogliere il «ritmo» fondamentale della realtà. Tale ritmo sarebbe manifestazione del fondamentale principio di identità, condizione di possibilità di ogni nostra conoscenza oggettiva e al di là del quale non ci sarebbe altro che un arbitrio assolutamente libero e imprevedibile (BW: 105-106)8. Questo arbitrio emergerebbe quando ci si dimentica della differenza tra la struttura fondamentalmente extrasoggettiva di questo ritmo e la sua componente soggettiva, che rende possibile tanto la sua consapevolezza, quanto la sua manifestazione concreta. Solo attraverso la percezione di queste differenze è possibile che la filosofia si liberi dal «servo arbitrio, conosciuto in epoca moderna come io puro, autoattività, libertà e ragione» (BW: 122). Nel saggio Sull’autonomia come principio della filosofia pratica di Kant e della filosofia della scuola fichtiano-schellinghiana nel suo complesso (Über die Autonomie als Princip der praktischen Philosophie der Kantischen — und der gesammten Philosophie der Fichtisch-schelllingschen Schule) (BLU, II: 104-140), Reinhold riprende questa conclusione, presentata in una lettera a Bardili del 1800. Egli attribuisce certamente a Kant il merito di aver trovato nell’autonomia della volontà il senso e il fondamento della legge morale e dell’indipendenza della ragione pratica (BLU, II: 105)9. Ma nello sviluppare questo pensiero kantiano Fichte avrebbe poi assimilato troppo rapidamente il concetto kantiano di autonomia alla spontaneità di un soggetto capace di distogliere lo sguardo dalle cose, riflettere su se stesso e fondare le operazioni del suo spirito dando vita alla scienza filosofica. Per Reinhold questa assimilazione porterebbe a intendere la legge morale come un’autodeterminazione della volontà, vista come una liberazione della spontaneità soggettiva da ogni vincolo oggettivo e come espressione dello slancio (Schwung) che porta l’io ad affermarsi come l’assolutamente positivo consapevole di se stesso (BLU, II: 106). In questo modo Fichte avrebbe compiuto il tradimento idealistico dell’esigenza e del compito (Aufgabe) fondamentale della filosofia: fondare la realtà della conoscenza attraverso la costruzione del sapere filosofico, senza con ciò annullarla in esso (BLU, I: 3-5). L’identificazione tra autonomia e arbitrio diviene il presupposto per negare l’autonomia stessa. L’arbitrio sarebbe definibile, secondo Reinhold, come un agire condizionato dal piacere e dal dispiacere, tutt’altro che autonomo e motivato da un impulso sensibile (BLU, II: 114). La formazione della filosofia trascendentale, pertanto, non corrisponde a uno sviluppo necessario, organico e compiuto del principio pratico-teoretico del sapere. Piuttosto, essa sarebbe riconducibile a un’illusione psicologica, ovvero a una «sublimazione» di questi motivi empirici e contingenti del singolo individuo filosofante in strutture necessarie della ragione (BLU, II: 128)10.
È singolare notare come queste tesi, che Reinhold formula ispirato da Bardili, esibiscano un certo cannibalismo della filosofia reinholdiana. Le tesi dei Contributi sono di fatto molto diverse dall’interpretazione della relazione tra arbitrio, libertà e legge data nel secondo volume delle Lettere sulla filosofia kantiana11. Nell’VIII di queste Reinhold fa dipendere la realtà della libertà dalla coesistenza della legge morale e del desiderio sensibile e, ancora, dalla coscienza della facoltà della autodeterminazione, cioè dalla coscienza della libertà e della volontà (Briefe II: 266-267). Reinhold riconduce la libertà non immediatamente, e come vorrebbe Kant, al fatto della ragione, ma all’interazione di una pluralità di fatti della coscienza (Briefe II: 264). Nella visione offerta nel secondo volume delle Lettere sulla filosofia kantiana la libertà si trova di fronte a due impulsi, che non hanno certamente lo stesso valore morale, ma che sono portatori di una richiesta che la libertà deve strutturare e definire gerarchicamente (Briefe II: 246). Anche Per Kant la libertà deve gerarchizzare adeguatamente i moventi morali e sensibili in massime che sono capaci di valere come leggi. Ma per Kant solo la legge morale sarebbe di per se stessa un movente (AK, VI: 23). E quando non funge da movente è solo perché la libertà considera l’altro movente come condizione del primo. Così in Kant si impone il primato della legge morale e la sua affermazione come principio che consente alla coscienza umana di divenire consapevole della propria libertà costitutiva in quanto libertà determinata da un compito morale. Per Reinhold, invece, il potere di autodeterminazione della libertà emerge solo in funzione di impulsi che si rendono portatori di richieste opposte (Briefe II: 194-195). Il fattore positivo della libertà consiste perciò nell’autoattività della persona che vuole, la quale è diversa dall’autoattività della ragione pratica. L’autoattività della ragione pratica è condizione di possibilità per l’attuazione della volontà. Ma la volontà può sempre operare a favore o contro la legge. In questo senso l’autoattività del libero arbitrio è il fondamento soggettivo e autodeterminante dell’azione morale. L’autoattività della ragione si riferisce invece ai fondamenti oggettivi che hanno soltanto una funzione ottativa (Briefe II: 194-195). Reinhold, perciò, afferma l’infondatezza e nello stesso tempo il carattere fondamentale della libertà. Da una parte, infatti, ogni posizione oggettiva della volontà ha come fondamento la libertà stessa. Per altro verso però, la libertà non ha altro fondamento che se stessa (Briefe II: 193). Per questo l’obiezione di Schmid secondo la quale non sarebbe possibile ammettere un’infinita libertà della volontà sarebbe impossibile perché contraria al principio di ragion sufficiente12. Per Reinhold, infatti, tale principio è valido nella misura in cui esibisce l’esigenza di un fondamento. Ma ciò non significa che tale fondamento debba essere esterno al fondato. In altre parole, il principio di ragion sufficiente riguarda la pensabilità di un ente, ma non determina se tale fondamento debba essere pensato fuori o all’interno dell’ente stesso. Per Reinhold sarebbe dunque possibile far emergere la libertà a partire dai suoi effetti, ma non nei suoi fondamenti. La libertà, perciò, non può essere intesa (kantianamente) come implicazione del fatto della ragione. Piuttosto, deve essere vista come un fatto della coscienza che si manifesta attraverso la coscienza di due impulsi contrastanti: quello interessato (sensibile) e quello disinteressato (morale, legge morale come movente). Così, la semplice natura disinteressata dell’azione non è un criterio sufficiente per concepire la libertà. La libertà consiste, invece, nella scelta indifferente fra la volontà pura e la volontà determinata patologicamente. Vista in rapporto alla prospettiva assunta nei Contributi, la posizione presentata nel secondo volume delle Lettere appare completamente opposta. La libertà si configura come il riflesso di una determinazione della persona, cioè come espressione di una pura attuazione della soggettività, mentre nella fase realista Reinhold rimette l’autonomia all’abbandonarsi del soggetto a un reale che si trova oltre la spontaneità e che viene fatto oggetto di fede.
3. Indagine psicologica e libertà della volontà
La tendenza antisoggettivista di Reinhold passa in effetti proprio per una critica agli equivoci impliciti negli sviluppi della filosofia trascendentale13. E riguardo al rapporto tra legge, libertà e arbitrio, la sua posizione va incontro all’impostazione che proprio Bardili aveva dato all’indagine sulla struttura dello spirito umano, che appare nel Compendio, ma che si consolida già negli scritti anteriori. È lo stesso Bardili a esplicitarlo in una delle sue prime lettere a Reinhold, pubblicate da quest’ultimo nel 1804. Qui Bardili giustifica il suo cammino filosofico come una metafisica che nella sua prima istanza è credenza (Glaube) e sentimento (Gefühl). Egli ritiene di non aver trascurato nessun passaggio nel corso dello studio della filosofia come scienza. Il suo percorso inizia dalla filosofia greca, di cui segue lo sviluppo fino alla nascita dei grandi sistemi speculativi, e si basa sulla possibilità di una critica psicologica della metafisica in generale, fino alla costruzione di una metafisica che non escluda Dio, ma che anzi ne risvegli in lui l’idea (BW: 21). A partire dalla fisica come «bisogno del suo intelletto», accompagnato da una costante attenzione per la matematica, Bardili riconosce la necessità intellettuale dell’uomo di costruire una scienza che si occupa del sovrasensibile. Questa, secondo quanto il filosofo scrive nel saggio Sull’origine del concetto di libertà del volere, sarebbe importante, non solo per aumentare le nostre conoscenze ma, soprattutto, per definirne la legittimità.
Si tratta di un approccio che caratterizza anche la prima fase del pensiero bardiliano, di stampo psicologico-razionale, che va dallo scritto del 1788 Epoche dei più importanti concetti filosofici (Epochen der vorzüglichsten philosophischen Begriffe) fino alle Lettere sull’origine della metafisica (Briefe über den Ursprung der Metaphysik) di dieci anni posteriore14. Obiettivo di questi scritti è ricondurre ogni elemento dell’esperienza umana e successivamente considerarne da questa prospettiva ciò che rientra nell’ambito della metafisica. In questo modo l’autore vuole sviluppare, non una storia della filosofia, ma una storia dei concetti intellettuali, che non ha ambizioni dimostrative, ma è volta a chiarire il modo in cui il genere umano scopre o giunge a certi concetti (Bardili, 1788: III)15.
Nella prospettiva della formazione di una filosofia pratica, questo approccio si caratterizza per l’introduzione della prospettiva fisiologica come strumento per mediare fra il livello semplicemente naturale e quello proprio dell’essere umano in quanto essere razionale e conciliare, in questo modo, psicologia e metafisica. Nella Filosofia pratica universale (1795) la concezione del rapporto organico tra ragione e natura permette a Bardili di tentare una fusione della dottrina empirica dell’anima e delle scoperte kantiane16. Nella sua comprensione della volontà17, il filosofo prova a evitare la spaccatura, che Kant introduce nella seconda critica, tra facoltà di desiderare inferiore e superiore. Così egli prova a fornirne un’interpretazione unitaria, come uno sviluppo che muove dall’istinto alla volontà razionale, passando per l’intelletto come facoltà delle massime condizionate. Nella sezione dedicata alla facoltà del volere in generale la natura dell’uomo viene presentata a partire dalla sua dimensione sensibile e caratterizzata da un istinto fondamentale, che Bardili chiama impulso alla vita e che raccoglie sotto di sé tutti gli altri impulsi (Bardili, 1795: 41-45)18. Ma in questa ricostruzione è necessario distinguere due aspetti. Uno è quello che appare attraverso coscienza di noi stessi ed è direttamente connesso alla nostra dimensione naturale. L’altro è quello che assume tale coscienza fenomenica all’interno della attività rappresentativa e viene interpretata come spontaneità o forza (Bardili, 1795: 91-94). Questa soluzione intermedia del dualismo kantiano è alla base di una proto-forma di psicologia razionale che porta Bardili a intendere le prestazioni pratiche del soggetto come sviluppo che dalla sensibilità porta alla ragione passando per l’intelletto.
Applicato alla libertà del volere, vista come possibilità di agire in modo giusto o ingiusto, o come capacità di agire in modo sempre diverso, questa prospettiva pone innanzitutto di fronte al fatto inoppugnabile che l’arbitrio sia il fondamento delle azioni che consideriamo determinate dalla nostra libera volontà. La filosofia non può arrestarsi all’ammissione di questo fatto, ma ha il compito di spiegarne l’origine. In particolare, deve spiegare il modo in cui il genere umano arriva a una rappresentazione di questo tipo e, dunque, all’idea che tanto nell’ambito umano, quanto in quello divino, si diano azioni che non sottostanno né alle leggi della ragione, né a quelle della natura.
La conclusione di questa indagine, che Bardili anticipa subito all’inizio di questo scritto, è forte e può essere suddivisa in due momenti:
1. Secondo Bardili la teoria kantiana della libertà fa alcuni passi avanti ma, nonostante le interpretazioni di Reinhold e Forberg siano eccellenti, non riesce a venir fuori dal determinismo (Bardili, 1796: III-IV).
2. L’interpretazione della libertà del volere data nell’ambito della filosofia kantiana è sostanzialmente frutto di un’illusione, che è compito del metodo psicologico-storico smascherare (Bardili, 1796: V-VI).
Queste due tesi vengono dimostrate attraverso due percorsi argomentativi apparentemente distinti. Il primo, posto all’inizio dello scritto bardiliano, consiste in una sorta di fenomenologia, non della volontà, ma del concetto del libero volere ed è volto a mostrare come i concetti di volontà libera o di arbitrio siano illusioni psicologiche piuttosto che strumenti positivi per comprendere la ragione nelle sue potenzialità pratiche. In questo caso l’obiettivo polemico, esplicitato solo alla fine, è proprio l’interpretazione della filosofia pratica kantiana data da Reinhold nel secondo volume delle Lettere sulla filosofia kantiana.
Il secondo consiste nell’analisi critica dei risultati del rapporto tra libertà e causalità data da Forberg nel testo Sui fondamenti delle leggi delle azioni libere (Über die Gründe der Gesetze der freien Handlungen)19 ed è volto a chiarire le contraddizioni che derivano sia dalla tesi secondo la quale la libertà della volontà non può avere fondamento ma deve essere fondamento a se stessa, sia dall’ammissione di un qualche tipo di fondamento per il libero volere. Qui il metodo di Bardili non consiste in una descrizione fenomenologica dell’origine di determinate strutture concettuali, ma in un percorso elenchico. Il filosofo assume le tesi di Forberg per mostrarne l’intima contraddittorietà.
Ora, prima di entrare nello specifico di questa dimostrazione è importante considerare che l’approccio bardiliano alla problematizzazione della libertà del volere non è rilevante soltanto nel contesto della ricezione della filosofia pratica kantiana. Il tentativo di ripensare la spontaneità della ragione in termini psicologici e antropologici ha un impatto sulla definizione delle strutture e del principio della filosofia prima. La questione della libertà del volere pone, infatti, il problema della ricerca di una dimensione alternativa a quella della ragione teoretica, in cui la libertà non è pensabile come ragione sufficiente per spiegare le determinazioni del volere umano e in cui la fondazione di un’azione libera è messa in crisi dalla costante possibilità di un regresso all’infinito. Dal punto di vista della ragione teoretica, infatti, affermare che un qualcosa ‘a’ non può essere pensato senza qualcos’altro ‘b’ implica affermare che ‘a’ non può essere senza ‘b’. Ma nel caso della ragione pratica, dire che siamo liberi se vincolati moralmente e viceversa non può implicare né che la legge morale sia causa della libertà, né il contrario. In un caso avremmo un fatalismo intelligibile. Nel caso opposto avremmo un relativismo20.
Nello sviluppo della filosofia classica tedesca questo problema viene risolto in due modi. Il primo investe una riflessione sul rapporto tra libertà e legge morale nei termini di potenziamento e trasformazione della coscienza individuale, portata avanti, oltre che da Reinhold, anche da Fichte (Franks, 2005: 293-294). Secondo questo modello, tra libertà e legge morale esisterebbe una circolarità. Ma non si tratterebbe di una circolarità viziosa. Il rendersi progressivamente morale dell’individuo aumenta e chiarisce la coscienza della libertà, senza generare però una fondazione autentica. La definizione del principio della filosofia, da questo punto di vista, è tutta incentrata sulla definizione delle forme secondo le quali il soggetto accede al mondo in maniera razionale, cioè non caratterizzata da elementi individuali che la ragione stessa non sarebbe in grado di controllare. Sotto questo profilo, la fondazione rispetta la seguente massima: la coerenza e la giustificabilità dei nostri discorsi sono espressione di un comportamento moralmente qualificato21.
Il secondo modo, viene espresso in maniera molto chiara nel realismo razionale reinholdiano e nel giovane Hegel, ma caratterizza anche la riflessione schellinghiana sulla libertà. Qui la libertà non viene intesa come proprietà del soggetto individuale, ma come espressione di una struttura (potremmo dire: di una logica) più ampia, di cui la prestazione del soggetto è soltanto un riflesso o una manifestazione. Anche in questo caso il legame tra legge morale e fatto della ragione esprimerebbe una contraddizione. La stessa espressione ‘fatto’ rinvierebbe a un qualcosa di esistente, che limita o deve essere integrato nella razionalità ma che, nello stesso tempo, ne limiterebbe l’universalità22. Il filosofare, in questo senso, non può essere inteso come potenziamento della coscienza finita e la giustificazione dei nostri discorsi sarebbe, sì, moralmente qualificata, ma rinvierebbe a una dimensione ulteriore inesplicabile dal suo punto di vista. La prestazione del soggetto dovrebbe essere intesa, non più come il luogo privilegiato in cui il principio si rende evidente, ma come il momento di uno sviluppo più generale. La libertà individuale, non sarebbe più espressione integrale della struttura della ragione, ma uno dei diversi momenti del suo articolarsi. E la comprensione della libertà non avverrebbe più sotto il profilo trascendentale, come funzione di una donazione di senso per una realtà che «non ha senso» (sinnlos, GEL: XV), ma sotto quello fenomenologico e storico, come figura limitata e provvisoria di questo sviluppo.
Il primo modello valorizza la libertà, la sua articolazione individuale e la sua pretesa assolutezza appaiono come l’elemento necessario per il procedere e per la fondazione di una filosofia. Nel secondo modello la libertà, la sua articolazione individuale e la sua pretesa assolutezza devono essere esibite nella loro parzialità come illusioni, dalla cui decostruzione emerge una dimensione di senso più ampia che non appartiene soltanto al soggetto, ma che quest’ultimo condivide con la realtà con cui interagisce.
4. La libertà è una illusione
Bardili, e successivamente Reinhold, sviluppano evidentemente questa tendenza. Tale sviluppo non avviene, però, solo nel Compendio, ma è preparato nelle riflessioni che lo precedono. Nella prima parte dello scritto del 1796 Bardili descrive la libertà della volontà come un concetto che si forma a partire dalla constatazione che lo spirito umano si trova di fronte a una molteplicità di eventi empirici che definiscono, tanto nello spazio come nel tempo, una molteplicità di opzioni individuali (Bardili, 1796: 5). Ciò riguarda sia le azioni concrete, sia la valutazione degli eventi stessi. Una visione del genere, che si pone precisamente nello spazio aperto dall’impossibilità di connettere un’azione a un fondamento specifico esterno all’azione stessa, si concretizza nell’idea tipica del senso comune secondo la quale si può ciò che si vuole e si vuole ciò che si può (Bardili, 1796: 10). Dal punto di vista filosofico Descartes legittima un’idea del genere, tanto applicata all’essere umano, come applicata a Dio, arrivando addirittura a qualificarla come innata (Bardili, 1796: 6). È necessario però chiarire l’origine di questa idea e, per farlo, è necessario verificarne la consistenza rispetto a tre domande:
1. Che cosa possiamo osservare nell’esperienza che ci porta ad ammettere l’esistenza di una volontà libera?
2. Che cosa l’essere umano crede di vedere nel fenomeno del volere libero e, soprattutto,
3. che cosa gli fa credere che questa credenza sia vera (Bardili, 1796: 11).
La risposta alla prima questione permette esattamente di descrivere la libertà come atto dello spirito che si determina in un contesto spaziale e temporale in cui in cui non ci sono fondamenti oggettivi. In questo caso la libertà del volere è fondamento a se stessa, può essere intesa come un fatto e prende il nome di arbitrio, con cui indichiamo la possibilità di poter esercitare variamente le forze del nostro spirito indipendentemente da un fondamento esterno. Se, ad esempio, consideriamo un dado che viene lanciato e che si ferma sul numero tre, ricorriamo all’arbitrio quando vogliamo attribuire a questo risultato una causalità e non vogliamo rimetterci al caso (Bardili, 1796: 17).
Attraverso la risposta alla seconda domanda possiamo giungere all’idea di arbitrio come capacità positiva, che entra in gioco quando una certa azione non viene determinata da ragioni esteriori. Ciò, tuttavia, non elimina il fatto che ogni azione possa essere ricondotta a un’inclinazione o a un interesse che si produce nel nostro spirito a partire da una causa, che potremmo non aver identificato o che resta ignota. Così, da una parte, la volontà si mette «nelle mani dell’arbitrio come suo sovrano e diventa una volontà indifferente e, dopo che si è posto tutto ai piedi dell’essenza cieca naturale dell’arbitrio, la si è tuttavia caratterizzata come libertà umana» (Bardili, 1796: 20). Ma, dall’altra, tale asservimento sarebbe soltanto un equivoco concettuale. Esso sarebbe determinato dal fatto che anche quando pensiamo di esserci liberati da un’inclinazione o da una passione in una nostra decisione ci sarebbe sempre una qualche determinazione sensibile predominante a spingerci ad agire in un certo modo, anche solo il sentimento dell’indipendenza dalle passioni (Bardili, 1796: 21).
Ma da dove deriva tale illusione? Su questo punto Bardili sembra essere molto chiaro: «l’idea di libertà della volontà emerge dove non è possibile riconoscere alcun fondamento concreto capace di soddisfarci e serve per riempire questa lacuna» (Bardili, 1796: 24). Tale riempimento, che rispetta l’esigenza fondamentale del nostro spirito di non avere lacune nella totalità della conoscenza (Bardili, 1796: 31-32), è però solo dialettico. Infatti, possiamo applicare il principio di ragione sempre solo da un punto di vista formale, nella misura in cui fa parte della natura della nostra coscienza pensare la causalità delle connessioni tra fenomeni così come essi ci si manifestano. Ma non riusciremo mai a cogliere le loro cause materiali. Perciò non è mai detto che la connessione causale che siamo capaci di pensare coincida con quella materiale relativa alle cose così come sono in se stesse. L’esperienza mostra, del resto, che questo ragionamento vale anche per il nostro volere. In ogni attuazione della volontà, infatti, abbiamo sempre la rappresentazione dell’espressione della sua forza, ma mai della sua causa. Siamo coscienti del nostro arbitrio, ma non riusciamo mai a cogliere la forza che lo determina. Allo stesso modo, quando lanciamo a nostro piacimento una pietra, ne vediamo il movimento, ma non riusciamo a stabilirne la causa. Ed è a questo punto che riconduciamo tutto a un atto del nostro io e arriviamo a pensare che la direzione in cui è stata lanciata la pietra sia indifferente a ogni tipo di causa esterna (Bardili, 1796: 29-30).
In altre parole, secondo Bardili, la comprensione della libertà come fondamento a se stessa nella determinazione di un agire indifferente è accettabile solo in funzione della natura dialettica della nostra coscienza (Bardili, 1796: 27). Reinhold ha ragione nel sostenere che il principio di ragione può essere considerato valido solo per pensare il fenomeno della libertà. Ma è proprio questo che la rende un concetto illusorio: legittimo solo nell’ambito della concatenazione delle prestazioni dell’intelletto umano, ma inefficace per spiegare la reale connessione tra stati di cose (Bardili, 1796: 45). È in questa cornice che la riflessione bardiliana sull’illusorietà della libertà che, come vedremo nelle pagine seguenti, costella lo scritto del 1796 appare meno ingenua e si rivela come il primo passo verso uno stile filosofico che avrà vasta risonanza nei decenni successivi.
5. I paradossi del volere libero
L’ulteriore prova dei risultati della lettura kantiana del problema della libertà viene condotta da Bardili discutendo la tesi di Forberg, opposta a quella di Reinhold. Nel sostenere che la filosofia kantiana non soltanto si è avvicinata alla soluzione della questione, ma la ha addirittura risolta, Forberg chiarisce, secondo Bardili, due punti fondamentali:
1. Che la libertà non è affatto una facoltà senza fondamento.
2. Che non consiste nella capacità di agire indipendentemente da una legge (Bardili, 1796: 47).
La dimostrazione del primo punto ruota tutta intorno alla possibilità di intendere la volontà come una facoltà che agisce in virtù di fondamenti di determinazione, i quali non devono essere pensati necessariamente come derivanti da una causalità naturale. Tra necessità naturale e necessità morale c’è infatti una differenza fondamentale. Nel caso della necessità naturale, la causa deve essere pensata come antecedente nel tempo e quindi come qualcosa a cui il soggetto non può ritornare. Nel caso della necessità a cui possiamo legare la determinazione della volontà non ci sarebbe questa successione temporale. Necessaria sarebbe solo la posizione dell’effetto una volta posta la causa. Ma il soggetto sarebbe sempre padrone di legare la determinazione della sua volontà a quella causa o meno. Causa ed effetto sarebbero dunque posti in una connessione atemporale e il soggetto potrebbe sempre evitare di legare la sua azione a una certa causa. In questo modo si salverebbe, secondo Forberg, la definizione kantiana della libertà come capacità di agire indipendentemente dalla causalità naturale. E sarebbe anche conforme all’idea di Kant, secondo cui, relativamente alla libertà, la relazione tra causa ed effetto non può cadere nel tempo (B: 567; Bardili, 1796: 48-51). E, a differenza dell’interpretazione data da Reinhold non si sarebbe detto ancora nulla sulla possibilità che la libertà sia fondamento a se stessa. Il problema di Forberg sarebbe invece il fatto che la riformulazione del concetto di necessità e l’eliminazione dal concetto di necessità della successione temporale non dimostrano la possibilità della libertà. Anzi, l’affermare che la libertà sussiste solo se si eliminano nel tempo alcuni impedimenti dimostrerebbe esattamente il contrario, e cioè che la libertà sarebbe prodotta negativamente da questa eliminazione (Bardili, 1796: 53). Di fatto, Forberg non dimostra la libertà, ma deduce solo la possibilità del suo uso, come capacità attraverso la quale l’essere umano può porre o togliere l’espressione della sua propria forza e, quindi, fare o non fare qualcosa. A questo fare, continua Bardili, si può o non si può trovare un fondamento. Se lo si trova, l’uso della libertà non è più arbitrario (beliebig), e quindi la libertà si annulla (Bardili, 1796: 54). Se invece non adduciamo alcun fondamento, sfuggiamo al principio di ragion sufficiente che, invece, dovrebbe essere ammesso come valido universalmente, allo stesso modo del principio di contraddizione. Del resto, se si continuasse, con Reinhold, a sostenere che la libertà è fondamento a se stessa otterremmo solo nuove difficoltà. In particolare, se il fondamento fosse posto nell’io, dovremmo concludere che l’io è fondamento di due conseguenze. Per altro verso, se ammettessimo nell’io due fondamenti (uno per una certa azione e uno per quella contraria), la conclusione sarebbe ancora più contraddittoria. O i due fondamenti avrebbero lo stesso peso, oppure dovrebbe esserci qualcosa che spinge in una direzione piuttosto che nell’altra (Bardili, 1796: 57). E quindi l’io come fondamento non sarebbe più tale. Lo stesso si potrebbe dire assumendo l’interesse morale legato al concetto di bene come fondamento di determinazione della volontà libera. Di fatto tale concetto è una rappresentazione. E perciò, se la rappresentazione influisce sulla volontà, il fondamento della scelta non sarebbe più l’io. Se invece la rappresentazione si rivela come ininfluente l’io torna nella situazione contraddittoria, in cui o resta inattivo o non agisce in virtù di se stesso. Infine, anche se volessimo pensare all’io come fondamento solo della possibilità di scelte opposte, la necessità della realizzazione di una certa opzione assimilerebbe la possibilità e la libertà del volere sarebbe ulteriormente negata (Bardili, 1796: 59-60). Così, ammesso che non possiamo spiegare la libertà se non in base a fondamenti di determinazione dobbiamo chiarire di che tipo questi ultimi debbano essere. Secondo Forberg dovremmo escludere che tali fondamenti siano forze intelligibili, perché resterebbero inconoscibili e non ci permetterebbero di risolvere la questione. Siamo capaci di pensare, tuttavia, azioni della volontà che producono oggetti specifici, e cioè massime in funzione delle quali orientiamo le nostre azioni. Il concetto di massima, come azione della volontà che determina altre azioni della volontà, potrebbe essere assunto come fondamento di determinazione del volere libero. E tuttavia, secondo Bardili, Forberg non chiarisce in che misura una massima possa essere nello stesso tempo fondamento di determinazione di azioni specifiche e fondamento di determinazione di opzioni arbitrarie. Un analogo schema viene applicato alla prova della tesi secondo cui la dottrina kantiana introduce la libertà come una facoltà priva di legge. Ma anche in questo caso si giungerebbe a conclusioni contraddittorie. Se la libertà non viene ricondotta a una legge o, che è lo stesso, a un fondamento, avremmo un’applicazione parziale del principio di ragione. Se invece leghiamo la libertà a un fondamento, essa solo in apparenza resterebbe tale, nella misura in cui non potrebbe mai essere causa di due determinazioni opposte (Bardili, 1796: 59).
6. Conclusione
Pur non giungendo esplicitamente alla formulazione di una tesi positiva, lo scritto sulla libertà del volere appare il correlato critico della riflessione sulla filosofia morale kantiana condotta nella Filosofia pratica universale del 1795. Al di là della sua funzione apparentemente marginale nella riflessione sulla filosofia pratica di Kant, il testo mette tuttavia in evidenza due elementi fondamentali:
1. La distinzione tra l’autonomia della ragione e l’attività della libertà si trova alla base di una comprensione illusoria del soggetto come essere libero, capace di orientare le sue azioni tra moventi opposti e contrapposti. Tale apparente libertà, di fatto, sarebbe dovuta alla nostra incapacità di conoscere le cause recondite delle nostre azioni, ma non potrebbe mai essere assunta come auto-fondamento positivo delle azioni stesse.
2. La legittimità del discorso sulla libertà viene vagliata in rapporto alla sua conformità al principio di ragion sufficiente, che non è assunto solo come condizione trascendentale per la pensabilità della causalità della libertà (come faceva Reinhold), ma come principio anche della costituzione materiale del reale. Ciò esplicita la tendenza di Bardili a intendere la razionalità umana come una condizione specifica, piuttosto che come una possibilità problematica che si offre all’uomo in quanto essere pragmatico23.
Queste due conclusioni permettono certamente di intendere la problematizzazione bardiliana della libertà del volere come un tentativo di riabilitare il determinismo. Come tuttavia appare chiaro fin dalle coeve recensioni allo scritto24, Bardili lascia fuori l’aspetto più importante della questione: il motivo pratico che ci spinge ad ammettere la libertà a fondamento delle nostre azioni. Secondo questa interpretazione, Bardili avrebbe mostrato solo l’inammissibilità della problematizzazione filosofica della libertà del volere, ma non riflette adeguatamente sul fatto che la libertà è data prima di tale riflessione. L’argomentazione di Bardili lascia, così, intatta la deduzione kantiana, secondo la quale la libertà non è un fatto, ma un concetto, e in particolare un’idea (B: 562), della cui realtà non abbiamo una conoscenza teorica, ma soltanto una consapevolezza pratica, attraverso la legge morale, che senza libertà non sarebbe possibile25. Questa presunta ingenuità della posizione bardiliana si ripresenta, come in parte abbiamo visto, nella critica alla filosofia pratica kantiana condotta, dal punto di vista del realismo razionale nei Contributi e ricorre, in generale, nel percorso complessivo di Bardili, oltre Kant, verso la formazione del suo realismo logico. Letta, però, in un contesto più ampio tale ingenuità appare per l’appunto solo presunta. Essa si basa su un elemento sempre più presente nella discussione sulla filosofia di Kant: il dubbio che le funzioni offerte dalla soggettività possano offrire l’unica via di accesso a una compenetrazione razionale della realtà.
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1 Questa tesi, divenuta ormai classica nell’interpretazione della discussione post-kantiana, viene ad esempio sostenuta da Beiser, 2002 e Zöller, ٢٠٠٠, e problematizzata nelle sue radici storiche da Rockmore, ٢٠٠٥ e Rockmore, ٢٠١٦. In tutti questi contribuiti appare chiaro come nella discussione post-kantiana il ricorso al soggettivismo non rappresenti una risoluzione, per così dire, positiva delle questioni lasciate aperte da Kant, ma una ‘nemesi’ del modello di ragione proposto da Kant che mette in primo piano la questione della concretezza dell’esistenza (Zöller) e della provvisorietà della pratica filosofica (Rockmore), di fronte, tanto a una interpretazione semplicistica dell’idealismo come riduzione della realtà alla sfera di una spiritualità produttrice e trasparente a se stessa, quanto a una esaltazione della ragione come sviluppo organico di una essenza completamente pura.
2 Cfr. su questo punto la sintesi molto efficace data da McDowell, 1996: 81, n. dove, nel discutere le tesi di Allison, McDowell spiega come nella discussione post-kantiana la possibilità di isolare condizioni di possibilità per la conoscenza di una cosa che siano indipendenti dalla condizione di possibilità della cosa stessa non conduce necessariamente a uno psicologismo ma a una concezione ampia della razionalità, che oltrepassa le prestazioni cognitive del soggetto (Cfr. ad esempio McDowell, 1996: 62).
3 Una presentazione molto efficace, e filosoficamente rilevante, di questi sviluppi è data giá da Lask, 1903, su cui cfr. Ferraguto, 2020.
4 Cfr. Rosenkranz, 1840: 416; Erdmann, 1848: 430; Hartmann, 1972: 74; Zahn, 1965.
5 Cfr. solo come esempio Bondeli, 1995.
6 Una sintesi della biografia e del percorso intellettuale di Bardili è data da Klemme & Kuhen, 2016: 37-40.
7 Cfr. per una descrizione panoramica della struttura, dei riferimenti e degli obiettivi dei Contributi reinholdiani, Bondeli, 2020.
8 Per tutte le abbreviazioni cfr. la bibliografia a fine testo.
9 Una ricostruzione critica di questo tema in Kant è stata data da Noller, 2015. Il lavoro di Noller, che ripercorre la questione nell’ampio spettro dei testi kantiani ha anche il merito di fornire sia una ricostruzione della genesi della problematica nella filosofia moderna, sia di indagarne le implicazioni nello sviluppo della riflessione post-kantiana, così come nella discussione contemporanea. Per quello che ci interessa è sufficiente rinviare alle pp. 206-233 in cui si tratta specificamente dello sviluppo che Reinhold imprime alla riflessione kantiana sulla questione.
10 Per Reinhold si tratta di una tendenza di lungo periodo nella storia della filosofia la quale, nella filosofia moderna tedesca, e in particolare in Kant, Fichte e Schelling, trova il suo culmine. Infatti «Da sempre lo sforzo dell’essere umano verso una conoscenza completamente fondata, la cosiddetta filosofia, ha sempre rivelato, più o meno, e sempre in rapporto con una vera e propria follia – con una filodossia – nella quale l’arbitrio ha sempre fatto valere il suo influsso. Ma solo di recente l’arbitrio ha ottenuto il nome di libertà, impadronendosi completamente della speculazione e si è fatto valere come arbitrio speculante con il nome di ragione pura e, proprio per mezzo di questa follia metodizzante, si è presentata come filodossia compiuta e sotto il nome di filosofia pura come scienza» (BLU, II: 115-116).
11 Sul rapporto tra ragione pratica e volontà in Reinhold cfr. Olivier, 1941; Fabbianelli, 2000: 198-199; Bondeli, 2001; Gerten, 2003; Lazzari, 2003; Lazzari, 2004; Zöller, 2006; Marx, 2010. Una descrizione complessiva del punto di vista di Briefe II si trova in Bondeli, 2008. Una panoramica più ampia degli studi in merito è stata offerta da Ivaldo, 2012: 157.
12 Una analisi di questo aspetto, molto significativo per lo sviluppo del secondo volume delle Lettere sulla filosofia kantiana, si trova in Ivaldo, 2012: 212. Per una analisi dettagliata della riflessione reinholdiana sulla libertà cfr. in generale Ivaldo 2012: 200-219.
13 Una visione d’insieme del passaggio di Reinhold da una fase di sostegno e condivisione dei principi della filosofia trascendentale a una più critica, culminante nel progetto dei Contributi e nella proposta di un realismo razionale, è stata data da Ferraguto, 2018 e da Valenza, 2003, a cui si rimanda per una ricostruzione più approfondita.
14 Una trattazione del contenuto delle Lettere e una riflessione sull’importanza di questo scritto per lo sviluppo successivo della filosofia bardiliana è stato dato da Paimann: 2009: 76-89.
15 Il percorso di bardiliano è caratterizzato da una successione di momenti in cui la dimensione spirituale dell’essere umano è dapprima caratterizzata attraverso elementi naturali e (Bardili 1788: 1-17), successivamente, dall’idea di ordine del mondo, le cui caratteristiche fondamentali sono lo spinozismo e il materialismo, e culmina nella visione cartesiana (Bardili, 1788: 111-118), la prima a proporre una autentica dell’immaterialità dell’anima, connessa con una adeguata traduzione della dottrina cristiana in concetti filosofici. L’obiettivo di Bardili è, in questo senso, quello di ricondurre le rappresentazioni soprasensibili del genere umano a uno sviluppo storico legato alle capacità psicologiche dell’uomo e, soprattutto, al presupposto della completezza che lo caratterizza: la realtà non può essere caratterizzata da lacune, ma tutto deve poter essere ricondotto alla sua causa (Bardili, 1788: VII).
16 Cfr. su questo l’interpretazione di Tognini, 1976: 794-796.
17 La dimensione psico-fisica del volere come punto di partenza ed elemento centrale per la costruzione di una filosofia pratica appare fin dall’inizio dello scritto del 1795. Cfr. Bardili, 1795: 1-3 e 18, dove il volere non appare come una proprietà dell’individuo esperibile esternamente ma come un centro dinamico evidente nelle sue manifestazioni pratiche (desideri, volizioni) ed epistemiche (prestazioni intellettuali). Su questo cfr. anche Paimann, 2009: 33.
18 Senza voler entrare nello specifico, questo elemento svolge una funzione molto importante nella comprensione antropologica della razionalità individuale nella fase più marcatamente realistica del percorso bardiliano e in particolare in GEL:106-109. Qui, infatti, non si tratta semplicemente di chiarire in che modo la componente sensibile dell’individuo contribuisca alla determinazione della volontà, ma al mondo in cui la vita della natura sia comprensibile come espressione di una razionalità generale, che Bardili chiama pensiero (Denken), che si particolarizza, senza con ciò corrompersi in concrete prestazioni individuali.
19 Jena, 1795. Non è obiettivo di questo articolo entrare nel merito di questo scritto di Forberg, recentemente pubblicato in Forberg, 2021. Una rapida trattazione dei risultati ottenuti da Forberg in questo scritto è data da Wesselsky, 1913: 25, che tuttavia riprende il commento dato da Bardili nel testo del 1796. Gli studi su Forberg non sono moltissimi e quasi tutti legati al suo ruolo nella Controversia sull’ateismo (Atheismusstreit). Pochi sono gli studi che si occupano dei suoi primi scritti e in particolare di quello sulle leggi delle azioni libere. Oltre che all’importante studio di Wesselky, per una ampia ricostruzione del pensiero di Forberg cfr. Frank, 1996.
20 Si tratta di una questione molto importante assunta nell’attuale dibattito sugli argomenti trascendentali, su cui cfr. almeno Stroud, 1968 e Stroud, 1999.
21 Molto chiari su questo punto sono tanto il Reinhold del Fondamento del sapere filosofico (Reinhold, 1791: XVII), quanto il Fichte della Prima introduzione alla dottrina della scienza (GA, I, 4: 194-195). L’argomentazione fichtiana, secondo cui «la filosofia che si fa dipende dall’uomo che si è» e la connessa alternativa fra dogmatismo e idealismo, appaiono chiaramente come una strategia retorica. La possibilità di scegliere tra questi due approcci è solo illusoria. Il dogmatismo, infatti, non è un’autentica filosofia. Innanzitutto, perché il dogmatico identifica una cosa esterna all’io con il principio della filosofia e non riesce a dare una spiegazione compiuta del sistema del sapere umano (GA, I, 4: 195). E poi, chi sostiene il dogmatismo non può ‘sceglierlo’ davvero. A differenza di quella dell’idealista, la sua concezione dello spirito umano nega la libertà e contrasta con il supremo interesse che la filosofia deve mettere in evidenza, quello per noi stessi. A rigore, secondo Fichte, non è possibile scegliere ‘una’ filosofia. O, da un altro punto di vista, la scelta della filosofia non richiede una decisione ‘tra’ filosofie, ma un decidersi ‘per’ la filosofia. La sua dottrina della scienza non è altro che la giustificazione complessiva degli elementi che motivano questa scelta, grazie alla quale si esibisce e si articola l’’essere’ di chi sceglie e da cui la filosofia stessa dipende. La dottrina della scienza, cioè, è un esercizio di pensiero volto alla giustificazione compiuta dei suoi presupposti e, in particolare, del suo punto di partenza (cfr. su questo, fra i moltissimi contributi, la lettura data da Philonenko, 1966). Per una riflessione sulla dimensione pratico-morale del fondamento della filosofia cfr. Ivaldo, 2010.
22 Cfr. ad esempio GEL: 48; Hegel, 1968, II: 36; Schelling, 1859, 7: 352.
23 Il che potrebbe presupporre un appiattimento della differenza, in Kant, tra realismo empirico e idealismo trascendentale con la conseguenza, già notata da Hegel, di rendere l’idealismo un empirismo (cfr. ad esempio Hegel, 1968, II: 88-89).
24 Cfr. ad esempio la recensione apparsa negli Annalen der Philosophie und der Philosophischen Geistes, curati da L. H. Jakob, nel 1797, pp. 131-145, in part. pp. 144-145.
25 Da questo punto di vista Bardili sembra trascurare l’insieme dei significati del concetto di libertà attribuibili a Kant e, in particolare, la differenza tra la dimensione empirica e quella trascendentale che la caratterizza. Non è negli obiettivi di questo articolo approfondire i diversi concetti di libertà riscontrabili negli scritti kantiani, ma piuttosto quello di mostrare come l’assimilazione selettiva della proposta kantiana sia alla base della formazione di una concezione della razionalità che si pone l’obiettivo di superare il trascendentalismo na in una filosofia dell’assoluto. Per una visione sintetica e approfondita delle diverse accezioni della libertà in Kant si veda comunque Beck, 1987.