Daimon. Revista Internacional de Filosofía, nº 85 (2022), pp. 7-22
ISSN: 1130-0507 (papel) y 1989-4651 (electrónico)
http://dx.doi.org/10.6018/daimon.336121
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Conoscenza e pluralità dei punti di vista: un percorso tra epistemologia e filosofia della società
Knowledge and plurality of points of view: a route between
epistemology and philosophy of society
Abstract: Il problema dell’induzione è tra i più dibattuti in filosofia della scienza. Il mio tentativo in questo scritto sarà di mostrare come un’indagine sull’induzione possa contribuire a chiarire i termini del dibattito intorno a relativismo, pluralismo culturale e democrazia.
Parole chiave: induzione, relativismo, coerenza, verità
Abstract: The problem of induction in philosophy of science is considered one of the most relevant issue discussed among the scholars. I wish to make an attempt to show how the analysis of induction can contribute to the inquire about the questions concerning relativism, cultural pluralism and democracy.
Keywords: induction, relativism, coherence, truth
Recibido: 30/06/2018. Aceptado: 16/02/2021.
* Dottore di ricerca, Università D’Annunzio, Chieti, Italy. Email: alfonsodiprospero@yahoo.com. I principali interessi di ricerca sono costituiti dallo studio dei processi di comunicazione e delle loro ripercussioni sul pensiero e sulle convinzioni delle persone, sia dal punto di vista della psicologia e dell’etica, sia dal punto di vista dell’epistemologia e dell’ontologia. Pubblicazioni recenti: Di Prospero, A. (2020), La forma del significato. Saggio sui costituenti del pensiero, Aracne, Roma; Di Prospero, A. (2019), «La dialettica dei punti di vista: induttivismo e strutture della comunicazione», Aretè. International Journal of Philosophy, Human & Social Sciences, 4, pp. 339-360.
1. Introduzione. Razionalità, relativismo, induzione
Il confronto tra culture costituisce uno dei campi in cui la riflessione filosofica è chiamata oggi a pronunciarsi con maggiore urgenza. Le difficoltà che esso pone — in maniera evidente — tendono a rimandare a questioni che attraversano ambiti teorici che — anche sul piano metodologico — tradizionalmente risultano essere assai distanti e spesso poco comunicanti tra loro: il concetto stesso di “relativismo” (in qualunque declinazione lo si voglia assumere) implica riferimenti (almeno) alla logica, all’ontologia, all’epistemologia e al significato della ricerca tecnologica, alla sociologia, alla morale, alla psicologia, all’estetica, alle scienze politiche. Il fatto di voler cercare di tener conto di queste varie dimensioni del problema può portare facilmente a sollevare questioni che — sorgendo da considerazioni interne a un ambito tematico — finiscono per entrare in un contrasto più o meno forte con i punti di vista che invece sono più tipici o comunque più diffusi entro campi disciplinari differenti.
Nella nostra indagine, si inizierà con il proporre un modo di intendere il ragionamento induttivo che può mettere agevolmente in connessione questa tematica con il dibattito sul relativismo. L’inferenza induttiva — in sede di analisi logica — può essere descritta come di tipo non-monotono, cioè, aggiungendo nuove premesse alle vecchie che, venendo utilizzate da sole, portavano ad una conclusione C, si può ottenere una nuova conclusione, C’, che contraddice quella precedente, C, stabilendo così la relatività delle conclusioni rispetto alle premesse, in un senso molto più forte di quanto non accada con le inferenze di carattere monotono (per esempio il sillogismo aristotelico), per le quali vale invece il principio che, se nuove premesse vengono aggiunte a quelle iniziali (senza creare contraddizioni tra le vecchie e le nuove premesse), comunque tutte le conclusioni precedentemente ottenute devono essere ancora conservate.
Questo modo di intendere l’induzione, se da un lato crea la possibilità di riferirsi alle questioni poste dal relativismo secondo un’angolazione particolare, dall’altro porta a riconsiderare anche la nozione di intersoggettività del sapere secondo una specifica prospettiva teorica, per la quale essa può essere analizzata come il risultato di un apprendimento empirico — esso stesso induttivo — che non richiede quindi di essere contestualizzato entro una cornice in cui il requisito dell’intersoggettività venga già fatto valere. L’idea è che — rifacendosi all’opera di Piaget (1937) — si possa vedere l’evoluzione mentale del bambino come un percorso da una condizione di “solipsismo senza soggetto” tipica del neonato, in cui non si dà la possibilità di un confronto con punti di vista diversi dal proprio verso un progressivo sviluppo della capacità di porsi di fronte agli altri secondo una forma di “reciprocità razionale”1. Se questo processo viene descritto esso stesso come basato su generalizzazioni di matrice induttiva, ne segue che la richiesta avanzata in epistemologia di definire il sapere scientifico come per principio condivisibile (dalla “comunità degli scienziati”) possa essere sì accettato, ma con lo status di una tesi da accogliere formalmente a posteriori, quindi secondo tutti i margini di variabilità che la diversità delle esperienze individuali può autorizzare2. Non si vuole qui affermare che il requisito di intersoggettività del sapere sia falso, ma solo che deve essere considerato come una verità dotata di contenuto empirico, coincidente con il risultato di generalizzazioni fatte sulla base dei molti successi che nella vita di ogni persona — concretamente — ha ottenuto l’aspettativa che il giudizio di altre persone (sotto certe condizioni da specificare) sia un utile indizio di verosimiglianza delle credenze che ci si trova di volta in volta a dover valutare. La nostra tesi non esclude affatto che si diano componenti innate che orientano per esempio le direzioni in cui si applica l’attenzione selettiva del soggetto, in modo da rendere possibili reazioni di tipo “sociale” sin dalla nascita (come per esempio in Meltzoff). Si vogliono però sottoporre a esame le implicazioni che può avere una formulazione dell’induttivismo per la quale tutti i contenuti di sapere (quindi anche le “conoscenze” implicate da questi schemi di comportamento — indipendentemente dal fatto che la loro comparsa sia favorita o determinata a causa di fattori innati) sono sottoposte a vincoli espressi da una struttura di pensiero associativo-induttiva (anche prima che compaiano forme di pensiero cosciente — in questo caso sotto forma di riflessi pavloviani). Questa versione meno impegnativa è sufficiente per i nostri obiettivi, dato che il nostro proposito è solo quello di analizzare logicamente il significato della diversità dei punti di vista, senza a rigore voler essere noi stessi ad affermare se, in che misura e in quali casi essa si dia in forme più o meno irriducibili, né su quali basi gnoseologiche essa si produca. Senza poter qui portare delle argomentazioni a sostegno di questo orientamento, in questa sede ci limiteremo semplicemente ad affermare che siamo comunque propensi ad affermare soprattutto il ruolo dell’esperienza nelle dinamiche della conoscenza.
A partire da questo modo di intendere il requisito di intersoggettività del sapere, si vorrebbe infine procedere a sostenere che anche il rapporto tra individuo e collettività può richiedere di essere rivisto — sul piano dell’analisi politica e sociologica — secondo un’angolazione corrispondente.
L’epistemologia genetica ha uno dei suoi cardini teorici nel concetto di decentramento, che è stato utilizzato in modo esteso in ambito morale da Jürgen Habermas, anche attraverso la mediazione di Lawrence Kohlberg. Rispetto a questi due autori, però, l’interpretazione che qui si dà dell’opera di Piaget si muove in direzione diversa, assai critica verso il formalismo e l’universalismo di derivazione kantiana che in essi sono centrali.
Il riferimento che qui facciamo all’opera di Piaget — sicuramente tra le più notevoli della storia della psicologia — ha un valore euristico e orientativo fondamentale, ma è comunque opportuno ricordare le ricerche più recenti condotte da molti altri studiosi, che si prestano per delineare un quadro teorico generale entro cui sembra possibile — in prospettiva — collocare in modo preciso e fecondo la nostra concezione3, anche se — a loro volta — i diversi momenti di torsione teorica che la nostra impostazione comporta sia rispetto alle formulazioni classiche di Piaget, sia rispetto alle ricerche più recenti, richiederebbero uno spazio molto maggiore per poter dar conto dell’effettiva componibilità di presupposti teorici tra loro in effetti diversi.
2. Esperienza e generalizzazione
Può fare da avvio alle nostre riflessioni una pagina di Italo Calvino, che ha vissuto alcuni anni della propria infanzia in Liguria, e descrive in questo modo il sentimento psicologico che ha sviluppato verso i paesaggi tipici della costa ligure:
Se allora mi avessero chiesto che forma ha il mondo avrei detto che è in pendenza, con dislivelli irregolari, con sporgenze e rientranze, per cui mi trovo sempre in qualche modo come su un balcone […] e così anche adesso se mi chiedono che forma ha il mondo, se chiedono al me stesso che abita all’interno di me e conserva la prima impronta delle cose, devo rispondere che il mondo è disposto su tanti balconi che irregolarmente s’affacciano su un unico grande balcone che s’apre nel vuoto dell’aria, sul davanzale che è la breve striscia di mare contro il grandissimo cielo (Calvino, 1994, 89)
L’idea espressa da Calvino è molto intuitiva: un essere umano ha un percorso biografico che lo porta a fare certe esperienze. Queste esperienze possono in seguito diventare una sorta di modello che verrà utilizzato per rapportarsi a tutte le nuove esperienze che la persona farà, creando degli scripts che la persona utilizzerà per tutta la sua vita4. Non è difficile trovare conferme a questa idea nella letteratura sociologica. Basti pensare ai classici studi in cui Durkheim (1912, trad. it. 61-62) ha descritto la cosmologia delle tribù che, in Australia, attribuiscono al mondo una struttura che è modellata in realtà secondo la forma del loro accampamento.
In filosofia della scienza, in maniera abbastanza sorprendente, possiamo trovare una definizione di conferma induttiva che — elaborata con finalità teoriche del tutto indipendenti — spinge in effetti con forza verso l’accostamento tra questo tema e quello dell’induzione.
Hempel (1943) cerca di sviluppare una definizione “puramente sintattica” di conferma, che Goodman presenta in questi termini:
un’ipotesi è autenticamente confermata solo da un enunciato che ne sia un’istanza, nel senso particolare che esso comporta non l’ipotesi stessa ma una sua relativizzazione o restrizione a quella classe di entità cui l’enunciato si riferisce. La relativizzazione di un’ipotesi generale a una classe si ottiene restringendo il dominio dei suoi quantificatori, universali ed esistenziali, ai membri della data classe. In termini meno tecnici, ciò che l’ipotesi dice di tutte le cose l’enunciato di attestazione lo afferma di una cosa (o di una coppia o di una n-pla di cose). Questo consente […] di confermare che tutto il rame è un conduttore, in base al fatto che lo è un dato pezzo di rame (Goodman 1955, trad. it. 80-81)
Questo modo di definire la conferma è interessante non tanto in se stesso: i due autori prendono in considerazione questa definizione sostanzialmente solo per mostrarne i limiti. La loro riflessione conduce verso i noti “paradossi della conferma”, che nella seconda metà del Novecento hanno attirato in modo particolarmente vivo l’attenzione degli studiosi di epistemologia. È utile però soffermarsi su questa idea per dare espressione più precisa proprio all’intuizione che qui abbiamo esposto con le parole di Calvino. L’essere umano è portato a “scambiare” il campo più o meno ristretto dell’esperienza che ha effettuato, per “il” confine del mondo nella sua globalità. È difficile poi stabilire se e in che modo questo meccanismo — oltre che essere semplicemente psicologico — possa rientrare anche tra le procedure di “legittimazione” del sapere. Nonostante le critiche di Popper, sembra innegabile che la scienza moderna faccia comunque un utilizzo ampio e sistematico dell’induzione e del principio di uniformità della natura (per es., Hesse, 1974). Ne seguirebbe che il meccanismo che stiamo descrivendo potrebbe aspirare a rivendicare dei titoli di credibilità nei processi di acquisizione di nuove conoscenze. Al tempo stesso, è proprio il modo in cui lo stiamo analizzando, che ci porta a doverci soffermare anche su quelli che sono i suoi innegabili limiti: un soggetto S, partendo da un’evidenza iniziale E, conclude (per induzione) con C; un secondo soggetto S’, partendo da una diversa evidenza iniziale E’, conclude con C’. C e C’ possono essere in contraddizione — pur venendo derivate da E ed E’, che sono invece coerenti tra loro ed entrambe vere — ma, per induzione, dovrebbero essere considerate legittime (possiamo chiederci, comunque, se solo in senso procedurale — ma questa domanda rimanda in ogni caso alla questione di come poter intendere il corrispondente ontologico di un tale tipo di rivendicazioni di verità e/o correttezza).
Rimanendo entro un ordine di considerazioni di tipo politico e sociologico, dobbiamo considerare tutti i casi in cui un soggetto S applica queste procedure di inferenza e generalizzazione senza la consapevolezza della loro radicale relatività epistemologica. In base al ragionamento che stiamo sviluppando, dovremmo concludere che — in base all’evidenza iniziale disponibile ad S — proprio queste sarebbero le conclusioni più legittime, dal punto di vista di S, che dovrebbe appunto generalizzare a partire da E e concudendo con C. Paradossalmente, ci troveremmo a dover accettare come legittime le conclusioni che S trae, anche nel momento in cui S le utilizzasse con la convinzione che bastino a confutare la nostra posizione: dovremmo considerare accettabile la posizione di chi ci contraddice, pur continuando a prendere per vera la nostra posizione iniziale. Può essere utile osservare e chiarire la relazione tra questo “paradosso” e la nozione — in generale — di intersoggettività. Se si accetta la plausibilità della situazione descritta ora come “paradosso” (rifiutandone cioè la qualifica di paradossale) possiamo spingerci a pensare che una definizione empirica e a posteriori di intersoggettività possa in effetti essere portata ad abbracciare anche situazioni apparentemente così contraddittorie. Se si intende infatti che sono portato a confrontarmi con il punto di vista altrui per darmi conto (anche se in genere più o meno implicitamente) di come l’osservazione che faccio dei comportamenti degli altri (e la ricostruzione che faccio delle loro intenzioni e dei loro pensieri) possa essere messa in accordo con il contenuto d’informazione posseduto dalle mie esperienze, anche la situazione (apparentemente contraddittoria) di un altro soggetto che nega la verità delle mie pretese di conoscenza, può essere da me considerata sostanzialmente coerente con la descrizione che mi trovo a fare dei contenuti di verità che per me sono da accettare. Una tale situazione, per quanto questa affermazione possa sembrare paradossale, non implica giudizi che vanno a detrimento della legittimità della scelta di S di contraddirmi, anche dal mio personale punto di vista, e anche da una prospettiva che riguardi unicamente la dimensione logico-razionale del giudizio in quanto tale, e non quella etica del “rispetto” comunque dovuto alle idee di un’altra persona.
Il concetto di verità che schematicamente si sta abbozzando, in quanto ancorato all’esperienza del soggetto (1) da un lato evita il rischio di derive fondamentaliste: parlare di ancoraggio al soggetto significa che — logicamente e quindi, entro una certa misura, psicologicamente — non è richiesto di ritrovare negli altri la fiducia che noi stessi abbiamo nelle nostre proprie convinzioni, quindi, a monte, perde di senso — sul piano psicologico — la volontà di imporre le proprie convinzioni, (2) dall’altro evita — al tempo stesso — il rischio di una deriva verso l’indifferentismo temuto dai comunitaristi, perché grazie all’induzione l’esperienza propria dell’individuo, in quanto tale, può essere considerata sufficiente (purché ovviamente siano soddisfatte une serie di condizioni) a procurare — soggettivamente — la motivazione all’azione in una direzione specifica e diversa da tutte le altre. Uno dei fattori che certamente può favorire o meno il maturarsi della motivazione individuale, è dato dall’autocomprensione che l’individuo in questione avrà del fatto di basare i propri piani di azione su di una conoscenza che deve considerare sua propria o comunque relativa ad un numero limitato di attori sociali che con lui la condividono. La teoria che qui si presenta vorrebbe contribuire a chiarire — sul piano logico — la struttura di fondo che un tale modello di autocomprensione dovrebbe auspicabilmente arrivare ad avere, ma, indipendentemente dal ruolo che possono avere i vari sforzi di elaborazione teorica, la possibilità che un tale tipo di percezione di se stessi arrivi a diffondersi dipende verosimilmente dall’avanzamento di processi che in sociologia sono stati descritti come di “individualizzazione”, nel senso dei teorici della “modernizzazione riflessiva” (Giddens, Lash, Beck).
L’approccio che stiamo delineando ha implicazioni importanti per la stessa definizione del concetto di verità, che viene fatto risalire a una matrice essenzialmente sociale, secondo un percorso che nella storia della filosofia inizia (o comunque giunge a maturazione) perlomeno con Nietzsche. Il punto essenziale — secondo l’impostazione qui difesa, che chiaramente condivide solo alcuni degli aspetti del prospettivismo di Nietzsche — è che l’individuo — di fronte al compito di conoscere il mondo — vede gli stessi altri soggetti epistemici come un oggetto (in senso ovvio) della sua propria conoscenza, le cui credenze — per motivi strettamente logici — non possono essere messe sullo stesso piano delle proprie. Si può ricordare la celebre antinomia del mentitore: non ha senso che il soggetto pretenda di poter immaginare come false le sue proprie credenze (nel momento in cui le esprime come proprie), altrimenti, per definizione, non sarebbero più sue credenze, mentre può certamente concepire la falsità delle credenze altrui (e delle proprie, in momenti diversi da quelli in cui formula il giudizio di negazione). Il soggetto che osserva gli altri, è quindi legittimato razionalmente a descrivere le applicazioni del concetto di verità secondo presupposti di tipo semplicemente empirico e fenomenico, ricavando in questo modo lo spazio per collocare coerentemente anche le enunciazioni che — secondo un paradigma intersoggettivista — sarebbero invece inderogabilmente inconciliabili. Il piano su cui si rende possibile la conciliazione tra le enunciazioni, è prima di tutto quello della loro oggettualità, ma — secondo una prospettiva costruttivista — a partire anche solo da questo dato (logicamente) iniziale è effettivamente possibile procedere nella costituzione di una immagine del mondo del tutto intuitiva e plausibile (anche nel suo senso politico). Si noti però come al tempo stesso le istanze antifondazionali cui il costruttivismo assai spesso dà voce, debbano essere qui criticate, dato che l’individuo in effetti usa le proprie esperienze proprio per procurarsi una immagine delle cose che possa considerare attendibile.
Da un punto di vista più strettamente epistemologico, può essere utile osservare come gli esempi di inferenze induttive fallite portati da Popper (1969) siano, in senso ovvio, appunto “esempi”: il ragionamento che in base a essi dovremmo convincerci che l’induzione è fallace, è in realtà esso stesso di tipo induttivo. Se invece si intende che il criterio da usarsi per legittimare le varie argomentazioni sia costituito da una metodologia basata sulle “congetture e confutazioni”, avremmo che il problema dell’ampliatività del procedimento utilizzato si riproporrebbe anche per i ragionamenti dello stesso Popper, rendendo nullo il vantaggio epistemologico che si cercava di ottenere. La stessa pretesa di aderire a un fallibilismo che rinuncia ad affermare la conoscibilità effettiva del mondo (o, nei termini più diffusi nel dibattito al riguardo, la possibilità di un sapere “giustificato” sul mondo), rischia di sfumare in forme di scetticismo che non riescono a dar conto del fatto che — nell’azione — le persone fanno comunque conto su di una quantità di conoscenze (descrivibili molto facilmente in termini di uniformità della natura) che difficilmente si possono con serietà mettere in discussione5. Una certa facilità con cui si possono arrivare a considerare autocontradditorie le stesse idee di base del fallibilismo — se non opportunamente circoscritte e precisate — emerge da numerosi studi6. Può essere utile però sottolineare che le argomentazioni che qui portiamo richiedono probabilmente di volgersi verso questioni di ontologia e gnoseologia, che implicano (nei termini di Strawson, 1959) più una correzione o revisione del sapere filosofico del “senso comune”, che non una sua “descrizione”. In questo modo, le discussioni che dovrebbero affrontarsi vanno presumibilmente in direzioni diverse da quelle che risulterebbero da un confronto testuale con il pensiero di Popper. Una volta che appaia accettabile il diverso quadro ontologico con cui interpretiamo qui per esempio il rapporto tra contenuti della mente individuale e significati socialmente condivisi, ne emergerebbe con chiarezza che — per quanto lo schema euristico che seguiamo possa dare l’impressione di essere ispirato ad un forte fondazionalismo — in realtà la misura di fallibilismo che noi stessi difendiamo, è del tutto in linea con le indicazioni fornite da Popper, dato che il carattere non-monotono dell’induzione si risolve in definitiva nell’ammissione della rivedibilità (sotto condizioni da specificarsi, ma comunque molto generali) in pratica di tutte le nostre conoscenze (purché naturalmente si effettuino le esperienze necessarie). Inoltre, data l’importanza che nella nostra prospettiva assume la dimensione psicologica del problema, è da considerarsi che — nelle operazioni concrete del pensare — le rappresentazioni che la mente elabora sono condizionate (i) da meccanismi di attenzione selettiva (verosimilmente anche — in parte — di origine bio-genetica) , (ii) in modo collegato, da quelle che possono essere viste come meta-induzioni che — dopo i necessari processi di apprendimento — conducono l’individuo a dirigere la propria attenzione (determinata in questo, quindi, da fattori di tipo empirico) verso certi target piuttosto che altri, e a sviluppare di conseguenza certi pensieri invece che altri. Con questo, può escludersi il rischio che il nostro induttivismo conduca a una gnoseologia che riduca implausibilmente il potere creativo della mente umana, rendendo la nostra facoltà di immaginazione una sorta di “specchio” di quanto già conosciuto in passato, dato che i risultati delle diverse possibili ricombinazioni di tutti questi fattori sono in sostanza imprevedibili e — in una certa misura — il requisito della forma associativo-induttiva che dobbiamo imporre a tutte le nostre rappresentazioni ha natura solo formale ed è destinato a operare su contenuti che o i meccanismi biologici o l’insieme degli apprendimenti precedenti possono pre-determinare e quindi, per questa via, alterare continuamente e radicalmente.
Il tipo di non-fallibilità in favore della quale qui pensiamo di dover argomentare, più che da formularsi come critica a Popper, è più facilmente accostabile (oltre che alla classica “antinomia del mentitore”) al tipo di considerazioni svolte da Nicholas Rescher (1988), che per esempio scrive che «if we did not deem our cognitive posture effectively optimal […] [i]t would be, ipso facto, fail to be our real position, contrary to hypothesis» (ivi, 142). All’interno del dibattito tra epistemologie in prima e terza persona, ricordiamo per esempio le posizioni di Leslie Stevenson (1999) o, in Italia, di Patrizia Pedrini (2009), che distingue due sensi in cui si può parlare di “prima persona”, a seconda che si tratti di contenuti perfettamente traparenti al soggetto (se vedo un fantasma, al di là di ogni convinzione o interpretazione, un certo contenuto è dato alla mia attenzione) oppure no (ciò che interpreto — anche se relativo a qualcosa che mi riguarda direttamente e personalmente — potrebbe essere oggetto di una mia convinzione del tutto errata). Il concetto di realtà che qui proponiamo di accettare è paragonabile ad una composizione di elementi (quelli da subito raccolti dal bambino) che sono “infallibili” solo nel primo senso. A questo punto, però, il confronto con Popper dovrebbe venire a svolgersi partendo da pre-assunzioni che avrebbero l’effetto di rendere non direttamente commensurabili le rispettive posizioni, che vengono in realtà a dipendere da contesti teorici che sono (in particolare sul piano dell’ontologia) estremamente diversi.
3. Ontogenesi e intersoggettività
Piaget descrive l’evoluzione cognitiva del bambino come il passaggio dall’egocentrismo iniziale alla reciprocità razionale che l’adulto è in grado di raggiungere7. Questo processo non viene però analizzato in termini di generalizzazioni induttive. Quando Piaget parla di induzione, lo fa secondo un’accezione molto complessa8. Ciò che qui intendiamo è invece che il bambino, servendosi ricorsivamente di forme molto più elementari e primitive di induzione, all’inizio riconducibili essenzialmente a riflessi pavloviani, attraverso la loro ripetizione, arriva a costituire una immagine del mondo man mano più complessa e raffinata, sempre più in grado di tener conto — grazie alle esperienze fatte — della diversità dei punti di vista. Grazie all’induzione, si arriverebbe progressivamente a comprendere la relatività dei risultati ottenibili mediante l’inferenza induttiva stessa. L’oggettività e univocità del giudizio continuerebbe ad essere richiesta (su questo ci distanziamo con molta nettezza da Nietzsche e dalle filosofie del post-moderno), ma relativizzandola ad un determinato campo di esperienze e conoscenze che fanno da base per l’elaborazione e definizione di una corrispondente immagine del mondo. La non-contraddizione sarebbe legittimamente esigibile solo all’interno di un tale specifico campo epistemico. L’intersoggettività del sapere non potrebbe di fatto più essere richiesta come un presupposto formalmente vincolante per considerare accettabile un giudizio — sostanzialmente perché sarebbe essa stessa un contenuto di sapere, che il soggetto deve ricostruire mediante operazioni fondamentalmente analoghe a quelle utilizzate per valutare ogni altro contenuto di sapere. Dall’interno del proprio campo epistemico vengono ricostruiti i contenuti di altri campi epistemici — che proprio per questo però sono solo oggetto della conoscenza dell’osservatore.
Piaget non si impegna a difendere un orientamento associazionista (e comportamentista): la sua adesione al paradigma dello strutturalismo (con una definizione della nozione di struttura data in termini di Gestalt) indicherebbe piuttosto una fondamentale diffidenza verso quella impostazione. Il comportamentismo però, se da un lato ammette il ruolo delle associazioni (convergendo con il nostro approccio induttivista), dall’altro intende queste secondo una prospettiva che le identifica secondo un criterio radicalmente intersoggettivista, muovendosi in una direzione del tutto diversa da quella qui proposta: se le associazioni definibili come tali devono essere riconoscibili in base ad uno standard metodologico del tipo di quello affermato dal comportamentismo — che nelle versioni più radicali arriva a negare l’ammissibilità di “stati interni”, in quanto non identificabili sperimentalmente e intersoggettivamente — ne segue che indirettamente viene negata una concezione dell’induzione basata sul principio di non-monotonia. Uno stato interno accessibile all’ispezione del solo soggetto che lo possiede, sarebbe — accogliendo il principio di non-monotonia — una evidenza che conta come tale agli occhi del solo soggetto di riferimento, senza che questa particolare circostanza possa pregiudicare in alcun modo il valore della conoscenza che il soggetto in questione può avere di essa. Il tipo di induttivismo che qui si difende, può essere in effetti accostato forse più agevolmente proprio al concetto di Gestalt (perlomeno parzialmente): nel momento in cui certi contenuti si offrono (simultaneamente tra loro) all’ispezione del soggetto, il legame che tra essi — proprio per questo — si crea (sotto forma di generalizzabilità dell’associazione così riscontrata) ne fa un “tutto” che ha caratteristiche del tutto irriducibili ad una semplice somma delle proprietà delle singole parti componenti. In effetti Piaget (1972, trad. it. 241) studia i fenomeni della Gestalt, osservando come le “buone forme” possano modellarsi progressivamente con l’esperienza.
Un tipo di obiezione di cui si deve tener conto, è rappresentata dal fatto che il pensiero di Piaget è stato contestato su vari fronti. Quelli che qui più in particolare ci interessano sono almeno due: 1) l’epistemologia genetica non terrebbe conto delle diversità culturali (cfr Molitor & Hsu, 2019); 2) l’egocentrismo del bambino affermato da Piaget sarebbe da negarsi, sulla base di concezioni come per esempio quelle di Trevarthen, che attribuiscono al bambino una capacità estremamente precoce di rapportarsi secondo modalità specifiche nei confronti degli altri esseri umani. Sul primo punto, possiamo osservare che la nostra proposta teorica non ci vincola in alcun modo a forme di etnocentrismo: ciò che ci interessa nella visione offerta dall’epistemologia genetica, è l’idea di una sequenza di passaggi in un processo di costruzione della conoscenza che va dall’egocentrismo alla condivisione. Che in altri contesti culturali questa sequenza possa presentarsi in forme diverse, è un risultato del tutto compatibile con la nostra prospettiva.
Riguardo al secondo punto, diviene essenziale distinguere tra due diversi possibili modi di concepire l’intersoggettività. Che il bambino sorrida abbastanza presto agli altri esseri umani, o che, ancora prima, sia soggetto a quello che è stato definito “contagio emotivo”, non implica che comprenda in un senso adeguatamente articolato e strutturato il significato dell’essere essi altri esseri umani, portatori di un punto di vista diverso riguardo alle stesse cose che il bambino osserva (secondo quanto mostrato per esempio dai celebri studi di Hoffman sul’empatia). Il nostro approccio è del tutto compatibile con l’idea che (per esempio) il bambino abbia una predisposizione innata e geneticamente determinata a provare un interesse più immediato ed intenso per le attività degli altri esseri umani (così come, per ragioni simili, ci sono margini sufficienti per accogliere anche osservazioni come quelle raccolte da Andrew Meltzoff o Renée Baillargeon), ma l’idea di una “reciprocità razionale” presuppone strumenti cognitivi di gran lunga più complessi di quelli rintracciabili in un bambino. Se uno studioso è in cerca di una risposta a domande che riguardano la “socialità” o meno del bambino, è legittimo soffermarsi su indicatori come per esempio l’età in cui compaiono i primi sorrisi rivolti agli adulti. Se invece ci si riferisce a costruzioni mentali logicamente molto più complesse, come quelle implicate dalla capacità di comprendere il punto di vista altrui (sottostando al minor numero possibile di distorsioni), è chiaro che si dovrà conservare un’immagine di ciò che può essere inteso come intersoggettività molto più simile a quella fatta propria dallo stesso Piaget.
4. Epistemologia e concezioni della società
I problemi filosofici impliciti in un utilizzo in senso induttivista dell’epistemologia genetica vanno molto oltre quelli cui qui si è potuto far cenno. Si vorrebbe però portare l’attenzione su altri aspetti della questione, interessanti per le implicazioni che possono ricavarsene sul piano politico e sociale. Un primo punto che possiamo richiamare riguarda il rapporto tra indirizzo universalista e indirizzo comunitarista. Appare abbastanza chiaro, dalle idee sin qui esposte, che gli strumenti concettuali che stiamo provando a predisporre consentono di cogliere sia alcune intuizioni fondamentali dell’universalismo (che qui assumiamo nella versione di Habermas [1981]) sia alcuni principi difesi dal comunitarismo (Sandel, MacIntyre, Taylor).
Un’epistemologia induttivista permette in effetti di indicare procedure di pensiero in grado di fare da cornice e quadro globale di riferimento — che può supporsi universalmente operante — per collocare le singole scelte di pensiero situate localmente. Per poter giudicare dell’opportunità o meno di accettare la rivendicazione di una continuità con il proprio passato culturale, è verosimilmente pertinente lo sforzo da fare per cercare di munirsi di una teoria che, descrivendo in generale il funzionamento dell’attività cognitiva umana (anche se solo ad un livello molto elevato di generalità ed astrazione), lasci intendere che cosa ci si deve attendere nell’analisi del comportamento epistemico concreto delle persone. È proprio in questo modo infatti che può contribuirsi a determinare fino a che punto una serie di principi e di descrizioni possano considerarsi effettivamente condivise (eventualmente in maniera implicita), così che la loro esplicitazione e specificazione possa apparire una scelta teorica il più possibile neutrale rispetto alle parti in causa. Il modo in cui qui viene descritta l’induzione, ha in particolare il vantaggio di non avere pericolose rigidità nel raffigurare il tipo di rapporto che lega un individuo al suo passato — mentre le appartenenze culturali e sociali entro cui esso si muove e da cui è condizionato possono essere descritte e discusse con la giusta misura di flessibilità.
Il fatto di rendere esplicito il ruolo e il significato dell’induzione (e il suo potere condizionante e deformante) è una condizione per dare forma a un universalismo (su basi di tipo costruttivista e gradualista — e non fondato trascendentalmente come in Habermas) dotato di un contenuto che guidi consapevolmente le intuizioni delle persone. Se il modo in cui qui ci stiamo esprimendo può dare l’impressione che si cada in una forma di intellettualismo eccessivamente ottimista, è bene precisare che si intende ovviamente che è prima di tutto l’esperienza in senso lato “storica” che una comunità possiede, il fattore che può indirizzarla verso certi tipi di autocomprensione piuttosto che altri — indipendentemente dagli strumenti in senso stretto analitico-teorici che chi vive in quella comunità utilizza per descriversi.
Il fatto che il valore dell’intersoggettività sia stabilito non a priori, ma comunque sia fatto valere sulla base della presunzione (in concreto difficilmente opinabile) che l’esperienza di vita degli esseri umani sia in genere sufficiente (a posteriori) a convincerli della sua importanza, permette di spiegare il passaggio per cui – procedendo da un sapere formalmente individuale – si possa essere del tutto adeguatamente motivati a respingere una propria passata convinzione (che si era formata induttivamente, ma era comunque destinata ad essere sostituita, con il sopraggiungere di nuove informazioni) per accettarne una nuova, sulla base dell’informazione che la nuova credenza è socialmente consolidata — e quindi tale da essere raccomandabile anche come conoscenza da assumersi da parte dell’individuo, per ragioni che sono esse stesse derivate induttivamente. È importante osservare però che questo modo di descrivere il requisito (e il bisogno psicologico) del consenso, impone di guardare con attenzione ai casi in cui l’individuo possa ritenere di avere fondati motivi per non dare la sua fiducia ai canali della comunicazione lungo cui viaggia l’informazione che deve valutare.
Le differenze principali rispetto all’impostazione di Habermas sono: 1) il ruolo del tutto maggiore dei contenuti di esperienza individuale all’interno delle procedure di “argomentazione”, 2) il fatto che la partecipazione alla sfera del Diskurs non può essere fatta dipendere da una dimostrazione “trascendentale”: se la sua esperienza dice al singolo soggetto di doversi rapportare ai contenuti del discorso socialmente condiviso con una più limitata misura di fiducia, secondo il nostro approccio l’individuo può considerare la propria posizione come relativamente autonoma rispetto alla dimensione del Diskurs. 3) Il fatto che — se l’esperienza concreta gioca un ruolo così rilevante — dovrà considerarsi verosimilmente più cospicuo anche il peso sia degli interessi concreti che muovono le persone, sia quindi delle difficoltà che da ciò seguono riguardo alla speranza nella possibilità di composizione delle controversie secondo un modello di effettiva giustizia (su questo vedi infra). Sono però presenti anche aspetti in comune: 1) il ruolo dell’argomentazione — come medium intrinseco e universale della relazione sociale, anche se manifestantesi in forme implicite nella maggior parte delle situazioni storicamente e socialmente attestate: per “argomentazione”, si intende qui una procedura di pensiero basata sull’esperienza e sull’induzione. 2) Il fatto che questa caratteristica dell’agire umano sia vista come un universale. Anche se in linea di principio non si possono offrire ragioni per garantire l’effettivo realizzarsi di una forma di consenso o di accordo, quando l’accordo arriva a costituirsi, esso è costruito sulla base di ragioni: senza poter nutrire la speranza in una realizzazione della giustizia che rischia di apparire troppo idealizzata, comunque il fatto di far luce sui meccanismi reali che guidano le argomentazioni e il ragionare delle persone può consentire di porre su una base più chiara e concettualmente (per quanto possibile) trasparente il dibattito su quelle che devono essere le linee generali da dare alle discussioni sui temi (per esempio quelli in vario modo legati alla problematica del relativismo) in cui le nostre intuizioni su ciò che è giusto sono ad oggi ancora molto confuse.
A integrare le poche righe che qui è possibile dedicare all’epistemologia fatta propria da Habermas, è opportuno citare almeno gli sviluppi esposti in Habermas (1999), che vanno in direzioni diverse da quelle da lui precedentemente adottate. L’effetto principale, però, a noi sembra, è quello di una certa perdita di coerenza logica interna al sistema habermasiano, che al tempo stesso peraltro non acquista in compenso una maggiore aderenza ai fatti, nella descrizione che viene offerta dei fenomeni di conflittualità sociale osservabili ordinariamente (cfr. Gregoratto, 2016).
Un termine di confronto interessante è offerto inoltre dalla categoria di “riconoscimento”, portata al centro del dibattito da Axel Honneth: è da evidenziarsi prima di tutto come il riconoscimento, nel solco di Habermas, sia un processo di ordine conoscitivo, anche se in un senso che include le emozioni, le pulsioni e il tipo di dinamiche psichiche indagate dalla psicanalisi. Per questa via, il dibattito sul ruolo dei fattori economici e di distribuzione della ricchezza in rapporto alle valenze del riconoscimento, che ha coinvolto studiose come Iris Young, Nancy Fraser e Judith Butler, può essere impostato in modo formalmente più preciso all’interno di una epistemologia di tipo induttivista, che nel riferimento all’esperienza vede sia uno strumento per far valere le stesse emozioni nel loro significato conoscitivo, sia il tramite per affermare il peso della dimensione economica e in genere materiale nella definizione dell’identità.
In questo stesso ordine di questioni si inseriscono anche le critiche di Mouffe (1999) all’intellettualismo habermasiano, che però a loro volta si espongono al rischio di cadere in errori di tipo simmetrico e speculare, enfatizzando per esempio il ruolo delle passioni nell’agire politico. Dal nostro punto di vista, le passioni e — in generale — le emozioni, hanno un contenuto di esperienza (come ogni altro vissuto psichico), e come tali sono da mettere nel conto nei processi di affermazione delle identità. È necessario però che il soggetto epistemico le valuti — nelle loro valenze e nelle loro implicazioni — con un atteggiamento corrispondente a quello con cui si giudicano i contenuti di conoscenza in senso stretto, per cui è a rigore un truismo che anche le emozioni possono essere sbagliate, nel senso che una certa emozione in una certa occasione può essere (in un senso che andrebbe approfondito) inappropriata. Il giudizio che di volta in volta dovrà darsi per stabilire quali emozioni sia “giusto” provare richiede razionalità e — contemporaneamente — la capacità di sentire l’emozione appropriata.
Un fondamentale interlocutore di Habermas è stato anche Niklas Luhmann (1984), che può dare con la sua opera un contributo di fondamentale interesse alla nostra riflessione. La nostra teoria offre un ampio margine per esprimere alcune idee tipiche del comunitarismo, ma è più urgente qui soffermarci su alcune nozioni che sono centrali nel pensiero di Luhmann e sono necessarie per poter presentare in maniera teoreticamente più convincente il nostro punto di vista. L’idea di fondo è che il carattere autoreferenziale dei sistemi, cui Luhmann attribuisce la massima importanza nello sviluppo di tutta la sua elaborazione teorica, possa essere utilizzato per chiarire euristicamente il senso di una epistemologia induttivista che faccia valere il carattere non-monotono dell’induzione. L’intuizione teorica che qui vorremmo cercare di cogliere è che il rapporto tra l’individuo e la sua propria esperienza (e il carico teorico che l’individuo ad essa impone, nella forma delle generalizzazioni induttive) è l’espressione — sul piano fenomenologico — del carattere autoreferenziale della conoscenza.
L’identità individuale si configura secondo certi assetti (inclusi gli stati di credenza etc.) in modo da mantenere in essere la propria organizzazione sistemica. Su di un piano gnoseologico, il carattere ricorsivo e ciclico delle operazioni (anche biologiche) che il sistema effettua per tenere in vita se stesso è ciò che si avvicina in senso più immediato alla dinamica dell’induzione. Anche in questo caso però, ci sono — oltre a degli elementi in comune — anche differenze sostanziali tra il paradigma luhmanniano e l’approccio qui proposto. Luhmann parte da una ontologia delle relazioni che nega — facendo leva sul concetto di autopoiesi — un ruolo agli elementi, in quanto tali, che sono coinvolti nella relazione. A questa scelta è collegata una definizione di “senso” inteso come “selezione”. Su entrambi i punti, la nostra teoria è portata a presentarsi in una forma differente: la valenza ontologica delle unità coinvolte nelle relazioni che definiscono il sistema non viene negata né minimizzata, manifestandosi proprio attraverso meccanismi che — visti “dall’interno” del vissuto — possono essere descritti — fenomenologicamente — secondo la visione intuitiva dell’induzione che abbiamo trovato in Goodman e Hempel. Il sistema si rapporta a se stesso in quanto governato da leggi che stabiliscono la regolarità (almeno relativa) del suo funzionamento, realizzando quella che localmente è una forma di uniformità del suo comportamento (dando attuazione concreta — nella prospettiva di quel punto di osservazione — ad una legge di “uniformità della natura”). L’osservatore esterno, costituendo esso stesso un sistema — governato però da differenti regolarità — non può per principio avere la stessa percezione degli elementi che compongono il sistema osservato. Se si vuole evitare la contraddizione tra i due punti di vista “costruiti” dal sistema osservatore e dal sistema osservato, si può scegliere — come fa Luhmann — di ridurre l’esistente alle sole relazioni che compongono i sistemi: venendo meno il riferimento alle unità componenti, e manifestandosi le relazioni attraverso processi che comunque producono conseguenze all’interno anche degli altri sistemi, il contenuto ontologico delle unità in quanto tali finisce per essere in effetti irrilevante — o più esattamente in assoluto non rilevabile. Questa scelta non è però necessaria (e ci sembra in realtà in generale poco plausibile), dato che il sistema osservante è comunque vincolato inderogabilmente al proprio punto di osservazione, potendosi così stabilire un’asimmetria rispetto a tutti gli altri sistemi, che ha l’effetto di salvare la portata fenomenologica dei contenuti propri del suo proprio campo epistemico — in quanto relativizzato al solo sistema osservante — e così restituire alle unità costitutive del sistema un contenuto ontologico del tutto pieno.
5. Conclusioni e prospettive di ricerca
Quali conseguenze sono comportate da questo insieme di riflessioni per il dibattito in filosofia sociale? Molti studiosi sono intervenuti per criticare quello che sarebbe il peso eccessivo che Luhmann darebbe all’autoreferenzialità dei sistemi (come si manifesterebbe per es. nella burocrazia). L’uomo luhmanniano è stato descritto come “senza qualità” (Belardinelli & Luhmann 1993). La rinuncia con cui Luhmann si priva della possibilità di apprezzare il contenuto fenomenologico dell’esperienza in parte autorizza questa critica. L’aspetto che qui si vorrebbe sostenere essere più interessante nel suo pensiero è però un altro — teoreticamente in realtà estremamente collegato:
fino a che punto si può prescindere dall’isolamento empirico dell’individualità, dalla chiusura, dall’oscurità, dall’intrasparenza tipiche della coscienza? [...] Per me l’uomo è sempre il singolo individuo [...] È questo radicale individualismo in riferimento ai sistemi psichici, che mi induce a tener fuori dalla teoria sociale le questioni che riguardano il significato della morale per il singolo individuo (ivi, 124)
Un secondo importante contributo che l’opera di Luhmann può fornirci riguarda il concetto di “illuminismo sociologico” (Luhmann, 1970). Mediante questa formula teorica, Luhmann intende un processo che porta a “slatentizzare” le funzioni latenti: richiamando l’esempio di Merton, si tratterebbe di rendere esplicito che il rituale della danza della pioggia tra gli Hopi risponde ad una funzione di integrazione sociale (funzione latente) e non — ovviamente — allo scopo di far piovere (secondo quanto asserito nella dimensione manifesta) — e che però anche questa è una funzione (che a questo punto potrà essere soddisfatta potendo accettare un certo numero di modifiche nello schema di comportamento che veniva impiegato tradizionalmente attuando pratiche che solo inavvertitamente portavano infine alla sua soddisfazione). La corrispondenza con la nostra situazione può essere trovata in questo: l’induttivismo implicito e inconsapevole di chi semplicemente scambia il campo della propria esperienza per “il” mondo può essere sostituito da un induttivismo cosciente — che grazie a questa raggiunta consapevolezza può tematizzare espressamente anche i limiti conoscitivi delle strategie induttive (che comunque non possono non continuare ad essere applicate, così come il Sole continua ad essere percepito in movimento intorno alla Terra, anche da parte di chi accetta la teoria astronomica di Copernico). In questo modo si può ottenere in effetti una maggiore misura di razionalità dei comportamenti (nel senso di un maggiore adattamento al nuovo contesto), resa presumibilmente più vantaggiosa e funzionale a causa della maggiore complessità delle situazioni entro cui si inserisce l’azione delle persone nel momento storico attuale. Il processo di “slatentizzazione” non può essere concepito però come incremento globale della consapevolezza, dato che mentre alcune regioni del senso vengono rese esplicite, altre vengono automaticamente immerse nella dimensione della latenza. Si potrebbe dire che globalmente non è affatto ovvio che il “progresso” porti a dinamiche che danno un ruolo più ampio alla consapevolezza nella vita delle persone.
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Notas
1 Una tale concezione dell’induzione è stata sviluppata in Di Prospero (2012, 2017, 2020).
2 Questo ordine di considerazioni, che rimandano alla dimensione empirica e sociale, oltre che “naturale”, del conoscere, richiederebbe un certo spazio per il confronto almeno con le posizioni di autori come Thomas Kuhn, Willard Von Orman Quine, Karin Knorr Cetina, Alvin Goldman, Paul Feyerabend, ma anche per esempio Pierre Bordieu, Bruno Latour, Sandra Harding, Lorraine Code.
3 Rakison et al. (2008), Elman et al. (1996), Arsalidou, Pascual-Leone (2016), Pascual-Leone & Johnson (2017), Westermann et al. (2006), Camos & Barrouillet (2018), Thomas & Karmiloff-Smith (2003), Parisi & Schlesinger (2002).Cfr anche Mandler (1998).
4 L’utilizzo di questa pagina nel dibattito sul relativismo è stato suggerito da Aime (2006).
5 Riferendosi a «[t]he verosimilitude project» di Popper, Musgrave osserva che: «Judgements of verosimilitude depend upon judgements of truth, and are just as conjectural as judgements of truth. If belief in any evidence-trascending hypothesis is unreasonable, so is belief that one evidence-trascending hypothesis is closer to the truth than another» (Musgrave, 2004, 25).
6 Per esempio Dodds (2011), Meynell (1982).
7 Cfr. Carpendale & Racine (2011). Una conseguenza interessante della nostra particolare prospettiva teorica (rafforzata anche dagli ormai classici studi di Pascual-Leone [1970]) è quella di smorzare il peso dell’idea che siano necessarie forti discontinuità nell’ontogenesi per spiegare la comparsa di strutture nuove, epistemologicamente più ricche delle più vecchie.
8 Per esempio Piaget (1964).